Prologo
Ci sono notti di metà novembre, tra le valli umbre, che penetrano dentro come lame. La foschia nasconde il paesaggio sotto la falce bianca della luna e il vapore, salendo dai fumi, incupisce le ombre sul ciglio della strada. Le cime dei salici mettono i brividi, curve comeavvoltoi in attesa, a spiare ogni passo del viandante.Sarebbe stato diffcile, però, trovare un viandante aquell’ora, in quelle notti di metà novembre. Anche alle prime luci dell’alba, in un simile tratto di strada, raramente avresti incontrato qualcuno. Bisognava avere addosso tutto il peso della notte per affrontare certe vie a quell’ora, e in testa fantasmi più inquietanti di quelli che agitava la foschia...
Il cavaliere solitario che avanzava senza fretta sulla via di Perugia sembrava effettivamente portarsi dentro un’angoscia antica.
Se aveva lasciato il convento dei francescani ad Assisi prima che iniziassero le laudi e, insonne, aveva deciso di tornare in sella al suo vecchio cavallo, era proprio perché niente là fuori avrebbe potuto agitare il suo animo più di ciò che aveva dentro: sciami di presentimenti, di quelli che pungono, e che fniscono immancabilmente per ammazzare il sonno...
Passato il Tevere, aveva imboccato un sentiero che saliva a nordovest. Intuita da lontano la sagoma grigia della città, non era diffcile orientarsi, anche se adesso la viuzza proseguiva in salita e attraversava un bosco che non gli permetteva di guardare lontano. La strada tuttavia era quella giusta per entrare a Perugia da Porta Sole, e la giornata, appena intiepidita dai primi raggi,
prometteva bene. Da una radura al di sopra del bosco, senza smontare da cavallo, si voltò a guardare un’ultima volta Assisi, verso oriente. Vide il sole, che proprio allora sorgeva dietro le cime, alle spalle della città. Emanava una luce mistica, dall’altra parte del fume sacro. Davanti a quello spettacolo, non gli era diffcile credere che san Francesco fosse proprio l’alba di cui parlava l’ultima profezia. Il sole nascente nella nuova era dello Spirito. Proseguì, rianimato da questa vaga e gradevole sensazione: le cose, malgrado tutto, erano ancora piene di signifcato.
Fu un lampo di pace: perché altrimenti aveva sempre addosso, e dentro, una rabbia impotente e disperata, il senso di vacuità che s’impossessava di lui ogni volta che gli tornava in mente quel viaggio a Roma, probabilmente inutile. Il suo incontro col papa, Bonifacio viii, nel palazzo del Laterano. Il volto del pontefce, la lama del suo sguardo freddo e indagatore. L’apparenza gentile,
l’affabilità melliflua, da serpente. Gli era sembrato un uomo fn troppo pieno di sé, di quelli che parlano tanto e non ascoltano mai, e che prima o poi si autodistruggono per eccesso di boria. Quella cortesia fn troppo esibita, però, non era riuscita a ingannarlo.
Il Papa non era affatto neutrale come fngeva di essere, e lui lo sapeva bene. Era andato a Roma in missione per conto del suo partito, i Bianchi di Vieri dei Cerchi. Ma Bonifacio simpatizzava per i Neri di Corso Donati e, per quanto tentasse di mascherare questa sua predilezione, non riusciva a nasconderla del tutto. Un osservatore attento poteva intuirlo da certi silenzi, da certi sguardi che distoglieva un attimo troppo tardi.
Quando era tornato indietro, sapeva già cosa gli sarebbe capitato. Carlo di Valois, fratello del re di Francia, si stava già dirigendo verso Firenze con un manipolo di cavalieri. Avrebbe preteso di entrare in città, per fare da paciere tra i due partiti nemici per conto del Papa. Ma i suoi compagni, i Bianchi che erano rimasti alla guida del Comune, non dovevano assolutamente credergli. Questo era fondamentale: dovevano sbarrargli il passo, chiudere le porte della città e impedirgli di entrare. Che assediasse pure Firenze! Tanto, con i pochi soldati che aveva al seguito, non ci avrebbe neppure provato.
Un sorriso gli afforò sulle labbra. Sarebbe stata la mossa vincente...