Né donna né vino mi aletta, né denaro né sfarzo,
né l’inchiostro da stampa, né la sbornia della radio.
Un silenzio atavico mi ascolta nella chiesa rupestre,
non mi vedrai mai più, mondo incongruente.
Corri attraverso l’inferno, orgia e sangue versato.
Che io ti segua, non farti nessuna illusione.
Son rimasto indietro, nei muri di pietra intaglio,
le leggi dei tempi, che son’ ancora da venire.
Corri verso la tua rovina, fermarti non è possibile -
sulle rovine nascerà una vita più bella.
Il lesto scalpello mi sfavilla rassicurante,
incurvato, scolpisco una lettera dopo l’altra.
I miei capelli, un cespuglio folto e spettinato,
con le sua dita titubanti, il vento mi scompiglia,
e sul mio corpo, che un tempo fu profumato,
dietro i morsi degli insetti, il sangue sgorga.
Di cosa devo rammaricarmi? Dei baci focosi, delle
donne innamorate? Non ricordo neppure il sapore.
La mia solitudine mi abitua alle fiere preghiere,
la mia mano avida verso il ciel’ si muove.
Devo compatire l’amico che mi esalta,
ma appena può, di dietro mi pugnala?
Questa cinta benedetta e munita di chiodi
che mi cinge, vale tutti gli amici messi insieme.
Dovrei forse, per la mia famiglia, versar’ lacrime?
Ho vissuto tra di loro. Neanche sapevan’ chi ero.
Ora è l’occhio del fratello – cervo che mi sorride,
e si chinano su di me le stelle del firmamento.
Ed io attendo, che anche Dio discenda;
noi due, allegri saggi, faremo una chiaccherata.
La mia morte, sotto il suo sguardo illuminato,
maturerà, come un frutto saporito e succoso.
Quando questo frutto sarà gustoso e maturo,
i miei denti vogliosi affonderò nella sua polpa:
vedrò, fin dove arriva la vista, fino al cielo
in modo saccente e – finalmente! appagato –
Quando io sarò morto, da tanto tempo, forse,
il figlio di Domani, errando, troverà le mie ossa.
E nella mia grotta, sulle pareti, vedrà incisi,
i verbi che solo a lui erano destinati.