Da qualche parte trema il monotono
ronzio metallico della sega.
Da qualche parte cannelli per saldare
trafiggono la carne rovente del ferro.
Demoliscono, costruiscono.
Da qualche parte, nel disordine delle travi,
una conca desolata: tornea il tempo.
Sopra di noi, abbandonato, volteggia
l’impastatrice per calcestruzzo.
Geme il peso degli strati, frana
sull’asse del ricordo,
ma custodisce, difende il recipiente dei
suoi tormenti, l’espiata vittoria della pace.
L’inquietudine stacca nuova conoscenza
dai rami del piacere del zafferano:
l’abbaglio avido del corpo
promette solo il grembo, non il viso.
Istinto, celami più profondemente, ove
non v’è peccato, non v’è condanna.
Che coltelli mattutini non aprano le mie ciglia
attraverso le grate delle persiane.
Da dietro il frastuono strillante dei metalli
fiorisce musica vilucchio,
dai minuscoli fori del soffio
Davide fa librare la melodia.
Attraverso i fili della pioggia, palpitando pulsa,
si dilata l’anello della musica viva.
Echeggia dai meandri dell’arena
delle montagne. Insieme a lui,
corro anch’io.
Ansimo, m’inciampo come colui che
la staffetta dalle proprie mani riceve,
che possa finalmente, anche mugolando,
aggirare l’unico possesso del mio senso.
1969