E’ morta colei che ho amato tanto
è vero pure di non averle mai confessato.
A quel tempo ero solo un suo amico.
Lei viveva con un altro,
con il padre legittimo dei suoi tre figli.
Ventidue anni a malapena,
come fiori pallidi della povertà i suoi tre figli.
Uno si nutriva ancora del latte materno,
a sera venivano lavati dalla nonna
in un catino a righe senza smalto.
Si, erano i fiori pallidi della povertà
all’ombra delle mura della vicina fabbrica.
Il pianto abbondava
afflizione per la mancanza del pane.
I giorni caotici e le notti lunghe reggevano
piuttosto bene
come se fossero nati per patimento
col segno del martirio già sulla fronte.
Bighellonavo tra di loro, unico uomo in casa
l’altro come se fosse evaporato
non l’abbiamo mai più rivisto.
1910
Inverno duro
promesse magre
e una porta che non ho saputo chiudere.
Tutta la dote della donna i tre ragazzi
tre poveri Cristi
ed io sentivo che sotto il peso delle tribolazioni
mi si piegavano le spalle.
Come giovane poeta tutto mi era più gravoso
vedevo tutto in una prospettiva più nera della realtà
solo il mio corpo viveva tra di loro.
Questo corpo che non apparteneva
ad un campione del pentatlon bensì a me
giovane poeta
frequentemente tradito dalla propria anima.
Non era questa la mia Patria vera
nel immaginario vivevo
sui tornanti di altre montagne
nelle correnti di altri fiumi
tra altri estremi.
Non me ne curavo della severità dei giudici
ne dell’ufficio delle tasse
ne della supponenza dei medici
o del lamento delle vecchiette.
Ero un signore senza soldi che
si cibava della propria carne.
Avevo la fissa di misurare l’infinito
pur sapendo accontentarmi di niente.
Somigliavo a quei credenti
che dimenticandosi dei propri stracci e ferite
sul portone del Paradiso vanno a bussare.
Non bevevo alcolici
ma davo l’impressione di un ubriaco incallito
vagavo ad occhi chiusi,
pur senza aver perso mai la via retta.
Era chiaro oramai
che avevo gettate le ancore in fondo al mare
che la scialuppa costruita
coi punti della luce dei miei sogni
non avrebbe potuto subire nessun danno
perché io sono il mare stesso
con il cielo sopra
dove la via lattea cosparsa con la polvere d’argento
sono sempre io.
Temevo la morte
pur vivendo in una sicurezza più grande
di qualsiasi mortale
al fianco della donna che per me abbandonò i suoi tre figli.
Nessuno può esser’ più felice di noi
dissi sincero nel mio profondo
eppure baciandoci
la tristezza dei peccatori ci serrava la gola.
Ma ciò non poteva più cambiare lo stato delle cose.
Io le dissi sei mia
anche lei mi disse sei mio.
Senza gesti e senza espressioni patetiche
recitava felice le mie poesie
cosi come esse son nate nella profondità
e si son compiute alla luce del sole
vidi lei sul palcoscenico nel
Miracolo di San’ Antonio
di Maeterlinck.
Iddio
come passa il tempo
come girano smodatamente le ruote non oleate
del nostro destino.
Negli sguardi incrociati degli spettatori
sul palcoscenico
era lei la povera serva stolta
lei che con il suo straccio laido stava lavando
il pavimento
proprio nel momento in cui appare Sant’Antonio
col giglio bianco tra le mani
piccole lampadine brillavano nella sua aureola
e la serva stolta lo guarda imbambolata
mani unite e con la bocca aperta
sul viso il rossore della sua innocenza appassita
come chi crede nei miracoli e davanti si prostra.
La vedevo e l’amavo tanto
in questo momento nasce una mia poesia
tra i tendaggi della notte avevo evocata mia madre
“ la quale piange davanti le tinozze
e tra vapori densi talvolta compaiono anche gli angeli.
Nelle loro camicette portavano fichi, datteri e ciliegie
e con le loro mani paffute appianavano i capelli
dagli occhi della lavandaia”.
Mia madre e mia moglie si son incamminate
sotto lo stesso tunnel verso la porta del ’aurora
io li precedevo con la lanterna
e mentre mi colavano le lacrime dagli occhi
osannavo l’arrivo di un futuro più bello.
Credevo di poter cambiare il mondo
con una parola una carezza delicata.
Divoravo poesie con un appetito incontrollabile
e li partorivo tra le doglie materne.
Tra le ragnatele delle mie visioni
inseguivo i cavalli dell’ Apocalisse
avevo attraversato a nuoto il corso del tempo
mi ero perso nello spazio
e mi son ritrovato di nuovo al braccio di mia moglie.
Sentivamo il pianto lontano dei tre bambini
ma noi camminavamo
senza sosta
con un sapore amaro in bocca
soffrendo dal bollore del nostro sangue.
Avvertivo chiaramente che un giorno
anch’io dovevo essere un bambino
che pianse dietro la madre
ora solo mi toccava reggere in alto
la bandiera del odio e dell’amore.
Di peccati imperdonabili non ne avevo.
Ma sapevo che
per tutto ciò che avevo fatto o che avevo mancato
nel proprio fuoco a bruciare mi tocca.
Dormi dormi mio piccino
cantava mia madre china sulla mia culla.
Le fiamme sanguinanti
illuminavano le mura
dove ombre nere ondeggiavano
tenendo aperti i miei occhi
propagandosi nel mio cuore.
Avrei voluto fuggire ma la mia età infantile
mi precluse ogni via di fuga.
Cosi è stata la mia infanzia
ed ora tre bambini abbandonati piangevano
dietro a noi.
E noi continuavamo a camminare.
Incontrammo guerre e rivoluzioni
credendo che da qualche parte
dietro le nebbie gialle
vivesse un mostro implacabile
con i denti affilati e con le artigli nere
che si diverte a tormentarci continuamente.
Eravamo tormentati e infamanti
come i personaggi nel libro di Dostoevskij.
Mia moglie era la mia Sonja pronta ai sacrifici
che mi accompagnava nei miei viaggi all’inferno
nella speranza che un giorno anche su di noi
sarebbe tornata a splendere il sole
e davanti a noi gli uomini avrebbero levato il cappello.
Il mondo è grande eppure non abbiamo potuto perderci
senza lasciare tracce.
Abbiamo pagato i nostri debiti di ieri
dopodiché facevamo degli scongiuri
per ottenere dei nuovi
come i buoi
senza alcuna utilità tiravamo il nostro giogo
sulla sabbia bollente
o eravamo persi nel bosco
tremando dalla paura nel silenzio infinito
dal pullulare invisibile e dal sibilo dei serpi.
Ci siamo annodati nei grovigli delle nostre promesse
ma liberandoci appena
continuavamo quel che non volevamo continuare
che altro potevamo fare se non abbracciarci
nella vertigine delle speranze migliori.
Tessiamo ciecamente la trama
di una tragedia promessa
facendo buon viso al cattivo gioco.
Quante notti abbiamo passato vegliando
vergognandoci una di fronte l’altro
abbiamo girato lo sguardo
davanti ai passanti sulla strada.
Sarà stato qualche verme a rodere i nostri cuori
o forse qualche angelo invisibile ad inseguirci
con la sua spada invisibile
nel’oscurità immensa
e nello spazio irreale.
Quante volte stavamo seduti con le mani consorte
come nella valle della morte.
Abbiamo inviato i nostri sospiri verso altri lidi
dove l’aurora sorge
tra campanili e frastuono delle fabbriche.
Dentro di noi la voglia di vivere
era smisurata
e la cognizione della morte era altrettanta.
Se mia madre avesse presupposto
quello che sarei diventato
l’avrei pregata di staccarmi dal suo petto
e di buttarmi nel pozzo.
Non una volta avevo pensato anche a mio padre
da cui mi son staccato come un frutto bacato
si stacca dal proprio albero.
Colpa mia, o colpa mia.
Gioco con i miei giocattoli senza corpo
come chi si sta affannando
sulla ricostruzione
di un grande cattedrale.
Oramai lo so sto inseguendo la mia ombra
scruto la profondità del niente
e mi viene il ribrezzo vedendomi
nello specchio del fiume.
Sarei terribilmente solo
senza la donna che marcia al mio fianco.
Le devo una gratitudine infinita
e lode per il suo amore.
Era come la bontà in persona
come il profumo di un giardino in fiore
come una mano evanescente che di tanto in tanto
nel sonno mi aveva immerso
come un regalo mai richiesto
ma proprio per questo tanto più gradito.
Desideravo tutto di lei e mi regalò tutto.
Poi è partita per il suo lungo viaggio solitario.
Chi sa or dove si trova
vaga forse per i lidi maledetti
o davanti al portone del Paradiso
l’entrata attende
forse seduta sulla cima più alta della montagna
canta con la sua voce dolce di soprano
o forse in verità non c’è ormai da nessuna parte
diventata senza peso
e trasparente come l’aria
il suo ricordo custodisce solo questa piccola
tremenda ballata.
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“Lei mi apparteneva
e come una rosa sul suo petto mi portava
essendo pure lei come una rosa poverina.
Chi può capire il suo dolore profondo
aveva colto i fiori sui campi
al crepuscolo di una giornata al finir’ d’ estate
poi aveva pianto e si era uccisa."
E’ notte di Natale.
Suonano le campane.