Ady Endre: Il Demone ancestrale (Az ős Kaján Olasz nyelven)
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Az ős Kaján (Magyar)Bibor-palásban jött Keletről Duhaj legény, fülembe nótáz, Szent Kelet vesztett boldogsága, Én rossz zsaketben bóbiskálok, Ó-Babylon ideje óta Korhely Apolló, gúnyos arcú, »Nagyságos úr, kegyes pajtásom, Nyögve kinálom törött lantom, »Uram, kelj mással viadalra, »Uram, az én rögöm magyar rög, »Uram, én szegény, kósza szolga, »Uram, van egy anyám: szent asszony. »Volna talán egy-két nótám is, »Uram, bocsásd el bús szolgádat, »Van csömöröm, nagy irtózásom S már látom, mint kap paripára, Száll Keletről tovább Nyugatra,
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Il Demone ancestrale (Olasz)Venne dall’Est, di porpora ammantato, all’alba delle rime recondite. In groppa a un destriero, con l’umore inebriato, con gli strumenti musicali e cantando, il Demone ancestrale, accanto a me si sedette.
Giovane scapestrato, nelle orecchie mi canta, beviam’, beviam’, ed io lo sto ascoltando. Lunghe file di aurore rosse scivolano via ubriachi sulle finestre bussando.
Felicità perduta dell’Oriente sacro, Danzano sul tavolo, pieno di vino, Questo vituperato presente E il futuro nebuloso inorpellato. Il Demone ancestrale, mi sfida in duello.
Vestito, di giacca lacera, sto sonnecchiando, sulle spalle del Demone il vestito porporato. Crocifisso, due candele, mestizia. Una gran’ giostra è questa, mesta, infinita, Sul tavolo, come una fiumana scorre il vino.
Il Demone ancestrale lotta con me, Dai tempi dell’antica Babylonia. Tra i miei avi, vi era una baldracca, E da allora, che per me è diventato, Compare, padre, imperatore e Dio.
Apollo, il bagordo, suo viso è un ghigno, Scivolato il mantello, lo aspetta il suo cavallo, Ma la festa continua e la giostra va. Vaga, vaga, senza fermarsi mai Il bicchiere, sul tavolo insanguinato.
“Gran’ Signore, amico mio devoto, Ho la testa pesante, sii indulgente. Era troppo di tutto, l’abbondanza è perniciosa. Troppi peccati, la notte, la cupidigia, Padre, era troppo l’amore.”
Gemendo offro il mio liuto rotto, Il mio cuore è a pezzi, ma lui ride. La Vita va su e giù, sempre di corsa, sotto la finestra della bettola sacra, lercia di vino e di sangue.
“Sfida in lotta qualcun altro, Per me il piacere non è un piacere. La gloria e l’euforia sono solo mal di testa. Nei sogni ignobili si son consumati, Gli artigli del superbo leone.”
“Signore, la mia zolla è una zolla ungherese. Sterile, sfruttata. A cosa mira, Il tuo incitamento euforico? A che serve il patto col vino e con il sangue? Quanto vale l’uomo, se è ungherese?”
“Signore, sono un povero,servo errante, un grande matto consunto, a che serve bere ormai a più non posso? Di denari non ne ho, il mio credo è svanito, sono privo di forze, sto morendo.”
“Signore mio, ho una madre: santa donna, Ho la mia donna, Leda: che sia benedetta, Ho un paio di guizzi di sogno, E anche un paio di amanti. Sotto la mia anima, Un gran pantano: l’orrore.”
“Forse ne avrei anche un paio di canti, Un paio di canti grandi, voluttuosi, Ma sto per crollare, come vedi, Sotto l’euforia, sotto il tavolo, In questa lotta ancestrale.”
“Signore, congedi il tuo servo, Tanto non è rimasto più niente: Solo la certezza ancestrale,il decadimento sicuro, Non m’incantare, non farmi del male, non farmi bere Signore, io non son disposto più, a bere.”
“Son disgustato e piena di ripugnanza, Ho la schiena malata e avvizzita, Mi inchino davanti a te, per l’ultima volta, Poi scaglierò il bicchiere per terra. Signore, hai vinto tu l’ultima sfida.”
Vedo ormai, come salta in groppa al destriero, Tra una gran risata mi da una pacca sulla schiena. Lo accompagnano con il suo cavallo alato, I canti pagani, l’allegre aurore, E venti bollenti stregati.
Continua a volare dall’Est all’Ovest, In cerca di giostre pagane sempre nuove, Ed io con il crocifisso, col bicchiere rotto, Con il corpo freddo e con il ghigno paralizzato, Sotto il tavolo mi allungo.
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